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BASILICA DI SANTA CHIARA

Certosa Santa Chiara 03.JPG
Di Miguel Hermoso Cuesta – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=37953015

La basilica di Santa Chiara, o il monastero di Santa Chiara, è un edificio di culto monumentale di Napoli, tra i più importanti e grandi complessi monastici della città[1].

La basilica ha il suo ingresso su via Benedetto Croce, sorgendo sul lato nord-orientale di piazza del Gesù Nuovo, di fronte alla chiesa omonima ed adiacente a quella delle clarisse, un tempo quest’ultima facente parte del complesso monastico di Santa Chiara.

Si tratta della più grande basilica gotico-angioina della città, caratterizzata da un monastero che comprende quattro chiostri monumentali, gli scavi archeologici nell’area circostante e diverse altre sale nelle quali è ospitato l’omonimo Museo dell’Opera, che a sua volta comprende nella visita anche il coro delle monache, con resti di affreschi di Giotto, un grande refettorio, la sacrestia ed altri ambienti basilicali.

Voluta da Roberto d’Angiò e sua moglie Sancia di Maiorca, quest’ultima devota alla vita di clausura seppur impossibilitata a rispondere a tale vocazione[1], fu chiamato all’edificazione della chiesa l’architetto Gagliardo Primario che avviò i lavori nel 1310 per poi terminarli nel 1328, aprendo al culto definitivamente nel 1330 seppur la consacrazione a Santa Chiara avverrà solo nel 1340. La chiesa, costruita in forme gotiche provenzali, assurse ben presto a una delle più importanti di Napoli al cui interno lavorarono alcuni dei più importanti artisti dell’epoca, come Tino di Camaino e Giotto, con quest’ultimo che esegue nel coro delle monache affreschi su Episodi dell’Apocalisse e Storie del Vecchio Testamento[2]. Assieme alla basilica fu edificato adiacente ad essa anche un luogo di clausura per i frati minori, divenuto in seguito la chiesa delle Clarisse[1].

Nella basilica di Santa Chiara, il 14 agosto 1571, vennero solennemente consegnati a don Giovanni d’Austria il vessillo pontificio di Papa Pio V ed il bastone del comando della coalizione cristiana prima della partenza della flotta della Lega Santa per la battaglia di Lepanto contro i Turchi Ottomani.

Nel 1590 fu a lungo custode del regio monastero Antonino da Patti, autore di varie grazie e miracoli sui malati che lo porteranno a diventare venerabile.

Tra il 1742 e il 1796 venne ampiamente ristrutturata in forme barocche da Domenico Antonio Vaccaro e Gaetano Buonocore[2]. Gli interni furono abbelliti con opere di Francesco de Mura, Sebastiano Conca e Giuseppe Bonito; a Ferdinando Fuga si deve invece l’esecuzione del pavimento marmoreo, avvenuta nel 1762[2].

Durante la seconda guerra mondiale un bombardamento degli alleati del 4 agosto 1943 provocò un incendio durato quasi due giorni che distrusse in parte alcuni interni della chiesa e causò la perdita di tutti gli affreschi eseguiti nel XVIII secolo e gran parte di quelli giotteschi eseguiti durante l’edificazione dell’edificio, di cui si sono salvati solo pochi frammenti[2]. Nell’ottobre 1944 Padre Gaudenzio Dell’Aja fu nominato “rappresentante dell’ordine dei Frati Minori per i lavori di ricostruzione della basilica”. In seguito, i discussi lavori di restauro si concentrarono sull’architettura medievale rimasta intatta dai bombardamenti, riportando la basilica all’aspetto originario trecentesco e omettendo in questo modo il ripristino delle aggiunte settecentesche.

I lavori terminarono definitivamente nel 1953 e la chiesa fu riaperta al pubblico. Le opere scultoree sopravvissute, dopo la ricostruzione, furono spostate nelle sale del monastero, oggi Museo dell’Opera, mentre i sepolcri monumentali, per lo più reali, che invece caratterizzavano la basilica sono rimasti in loco, seppur alcuni di essi fortemente danneggiati.